Continua il nostro viaggio alla scoperta della Divina Commedia dal punto di vista esoterico.
Oggi analizziamo l’undicesimo canto del Purgatorio. Siamo ancora nella prima cornice, quella dove i superbi spurgano il loro peccato portando sulla propria schiena dei pesanti massi, per questo la loro schiena è ricurva e ci è impossibile guardare il loro volto. Nonostante ciò finalmente possiamo parlare con due di loro: Oderisi da Gubbio e Omberto Aldobrandeschi.
Al solito, vi ricordiamo che analizziamo il canto solo ed esclusivamente dal punto di vista esoterico, comparandolo con quello che è stato ed è il nostro cammino spirituale.
Questi articoli, insomma, servono solo come spunti di riflessione su noi stessi, dove ogni protagonista che incontriamo è una nostra parte.
Oggi analizziamo l’undicesimo canto del Purgatorio. Siamo ancora nella prima cornice, quella dove i superbi spurgano il loro peccato portando sulla propria schiena dei pesanti massi, per questo la loro schiena è ricurva e ci è impossibile guardare il loro volto. Nonostante ciò finalmente possiamo parlare con due di loro: Oderisi da Gubbio e Omberto Aldobrandeschi.
Al solito, vi ricordiamo che analizziamo il canto solo ed esclusivamente dal punto di vista esoterico, comparandolo con quello che è stato ed è il nostro cammino spirituale.
Questi articoli, insomma, servono solo come spunti di riflessione su noi stessi, dove ogni protagonista che incontriamo è una nostra parte.
«O Padre nostro, che ne’ cieli stai,
non circunscritto, ma per più amore
ch’ai primi effetti di là sù tu hai,
laudato sia ‘l tuo nome e ‘l tuo valore
da ogne creatura, com’è degno
di render grazie al tuo dolce vapore.
Vegna ver’ noi la pace del tuo regno,
ché noi ad essa non potem da noi,
s’ella non vien, con tutto nostro ingegno.
Come del suo voler li angeli tuoi
fan sacrificio a te, cantando osanna,
Così facciano li uomini de’ suoi.
Dà oggi a noi la cotidiana manna,
sanza la qual per questo aspro diserto
a retro va chi più di gir s’affanna.
E come noi lo mal ch’avem sofferto
perdoniamo a ciascuno, e tu perdona
benigno, e non guardar lo nostro merto.
Nostra virtù che di legger s’adona,
non spermentar con l’antico avversaro,
ma libera da lui che sì la sprona.
Quest’ultima preghiera, segnor caro,
già non si fa per noi, ché non bisogna,
ma per color che dietro a noi restaro».
Così a sé a noi buona ramogna
quell’ombre orando, andavan sotto ‘l pondo,
simile a quel che tavolta si sogna,
disparmente angosciate tutte a tondo
e lasse su per la prima cornice,
purgando la caligine del mondo.
Se di là sempre ben per noi si dice,
di qua che dire e far per lor si puote
da quei c’hanno al voler buona radice?
Ben si de’ loro atar lavar le note
che portar quinci, sì che, mondi e lievi,
possano uscire a le stellate ruote.
non circunscritto, ma per più amore
ch’ai primi effetti di là sù tu hai,
laudato sia ‘l tuo nome e ‘l tuo valore
da ogne creatura, com’è degno
di render grazie al tuo dolce vapore.
Vegna ver’ noi la pace del tuo regno,
ché noi ad essa non potem da noi,
s’ella non vien, con tutto nostro ingegno.
Come del suo voler li angeli tuoi
fan sacrificio a te, cantando osanna,
Così facciano li uomini de’ suoi.
Dà oggi a noi la cotidiana manna,
sanza la qual per questo aspro diserto
a retro va chi più di gir s’affanna.
E come noi lo mal ch’avem sofferto
perdoniamo a ciascuno, e tu perdona
benigno, e non guardar lo nostro merto.
Nostra virtù che di legger s’adona,
non spermentar con l’antico avversaro,
ma libera da lui che sì la sprona.
Quest’ultima preghiera, segnor caro,
già non si fa per noi, ché non bisogna,
ma per color che dietro a noi restaro».
Così a sé a noi buona ramogna
quell’ombre orando, andavan sotto ‘l pondo,
simile a quel che tavolta si sogna,
disparmente angosciate tutte a tondo
e lasse su per la prima cornice,
purgando la caligine del mondo.
Se di là sempre ben per noi si dice,
di qua che dire e far per lor si puote
da quei c’hanno al voler buona radice?
Ben si de’ loro atar lavar le note
che portar quinci, sì che, mondi e lievi,
possano uscire a le stellate ruote.
Le anime recitano tutte il Padre Nostro, la preghiera più importante e conosciuta secondo la fede Cristiana, perché quella che ha insegnato Gesù ai suoi discepoli.
Qui, però, le parole sono leggermente diverse, andando a calcare il più possibile l’umiltà: virtù che ai penitenti è molto mancata in vita e che adesso devono nutrire.
A ogni versetto della preghiera, così segue una sorta di meditazione, come una spiegazione che riporta ancora all’umiltà: le anime ricordano che Dio è nei cieli e il Suo Amore è rivolto prima alle creature celestiali – angeli e Santi già in Paradiso –; che devono sempre richiedere la pace di Dio, perché non appartiene al regno degli umani; che come gli angeli cantano sempre l’osanna, così bisogna ricordarsi di fare la volontà del Signore; che è Dio a dare ciò di cui l’uomo ha bisogno per vivere; che il perdono si deve sempre dare, così come Dio lo dà a noi; e che bisogna ricorrere a Lui per essere liberi dal grande nemico: Satana.
Qui, però, le parole sono leggermente diverse, andando a calcare il più possibile l’umiltà: virtù che ai penitenti è molto mancata in vita e che adesso devono nutrire.
A ogni versetto della preghiera, così segue una sorta di meditazione, come una spiegazione che riporta ancora all’umiltà: le anime ricordano che Dio è nei cieli e il Suo Amore è rivolto prima alle creature celestiali – angeli e Santi già in Paradiso –; che devono sempre richiedere la pace di Dio, perché non appartiene al regno degli umani; che come gli angeli cantano sempre l’osanna, così bisogna ricordarsi di fare la volontà del Signore; che è Dio a dare ciò di cui l’uomo ha bisogno per vivere; che il perdono si deve sempre dare, così come Dio lo dà a noi; e che bisogna ricorrere a Lui per essere liberi dal grande nemico: Satana.
Il lettore arriva a chiedersi: ma come mai le anime del Purgatorio, che hanno già iniziato il loro cammino di Purificazione pregano per non essere tentate?
Ebbene, ce lo spiega Dante: tutte loro, che nel frattempo camminano lentamente – con pesi diversi a seconda del loro peccato sulla schiena – e a ogni giro si purificano sempre più, pregano per noi mortali, ancora presenti sulla Terra e che ancora continuiamo con il peccato di superbia: il più terribile agli occhi di Dio. Ricordate? È il motivo per cui Lucifero è stato cacciato dal Paradiso…
Che, quindi, loro preghino affinché noi possiamo salvarci è un grande atto di umiltà e Dante ci sprona a fare altrettanto: pregando per loro possiamo aiutarle a velocizzare il processo di purificazione.
È un dare e ricevere, proprio come nel Padre Nostro diciamo: “E rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori”. È importante comprendere, questo nel nostro quotidiano, che con la stessa misura con cui giudichiamo il prossimo, così anche noi verremo giudicati.
«Deh, se giustizia e pietà vi disgrievi
tosto, sì che possiate muover l’ala,
che secondo il disio vostro vi lievi,
mostrate da qual mano inver’ la scala
si va più corto; e se c’è più d’un varco,
quel ne ‘nsegnate che men erto cala;
ché questi che vien meco, per lo ‘ncarco
de la carne d’Adamo onde si veste,
al montar sù, contra sua voglia, è parco».
Le lor parole, che rendero a queste
che dette avea colui cu’ io seguiva,
non fur da cui venisser manifeste;
ma fu detto: «A man destra per la riva
con noi venite, e troverete il passo
possibile a salir persona viva.
E s’io non fossi impedito dal sasso
che la cervice mia superba doma,
onde portar convienmi il viso basso,
cotesti, ch’ancora vive e non si noma,
guardere’ io, per veder s’i’ ‘l conosco,
e per farlo pietoso a questa soma.
Io fui latino e nato d’un gran Tosco:
Guiglielmo Aldobrandesco fu mio padre;
non so se ‘l nome suo già mai fu vosco.
L’antico sangue e l’opere leggiadre
d’i miei maggior mi fer sì arrogante,
che, non pensando a la comune madre,
ogn’uomo ebbi in despetto tanto avante,
ch’io ne mori’, come i Sanesi sanno,
e sallo in Campagnatico ogne fante.
Io sono Omberto; e non pur a me danno
superbia fa, ché tutti i miei consorti
ha ella tratti seco nel malanno.
E qui convien ch’io questo peso porti
per lei, tanto che a Dio si sodisfaccia,
poi ch’io nol fe’ tra ‘ vivi, qiu tra ‘ morti».
tosto, sì che possiate muover l’ala,
che secondo il disio vostro vi lievi,
mostrate da qual mano inver’ la scala
si va più corto; e se c’è più d’un varco,
quel ne ‘nsegnate che men erto cala;
ché questi che vien meco, per lo ‘ncarco
de la carne d’Adamo onde si veste,
al montar sù, contra sua voglia, è parco».
Le lor parole, che rendero a queste
che dette avea colui cu’ io seguiva,
non fur da cui venisser manifeste;
ma fu detto: «A man destra per la riva
con noi venite, e troverete il passo
possibile a salir persona viva.
E s’io non fossi impedito dal sasso
che la cervice mia superba doma,
onde portar convienmi il viso basso,
cotesti, ch’ancora vive e non si noma,
guardere’ io, per veder s’i’ ‘l conosco,
e per farlo pietoso a questa soma.
Io fui latino e nato d’un gran Tosco:
Guiglielmo Aldobrandesco fu mio padre;
non so se ‘l nome suo già mai fu vosco.
L’antico sangue e l’opere leggiadre
d’i miei maggior mi fer sì arrogante,
che, non pensando a la comune madre,
ogn’uomo ebbi in despetto tanto avante,
ch’io ne mori’, come i Sanesi sanno,
e sallo in Campagnatico ogne fante.
Io sono Omberto; e non pur a me danno
superbia fa, ché tutti i miei consorti
ha ella tratti seco nel malanno.
E qui convien ch’io questo peso porti
per lei, tanto che a Dio si sodisfaccia,
poi ch’io nol fe’ tra ‘ vivi, qiu tra ‘ morti».
Virgilio, dopo aver augurato alle anime giustizia e misericordia affinché si possano presto liberare da tali pesi e raggiungere il volo “secondo loro desiderio”, chiede loro qual è la via per procedere più in fretta e in modo meno difficile, visto che vi è un vivo, verso l’avanzare del Purgatorio.
Prima di procedere vorrei soffermarmi sui versetti: “possiate muover l’ala,/che secondo il disio vostro vi lievi”, parafrasando: “possiate spiccare il volo/secondo il vostro desiderio”. Ecco, la Salvezza ci viene data sì da Dio, ma sempre se la vogliamo. Sta a noi capire se ne siamo davvero degni e quando si parla di perdono troppo spesso ci dimentichiamo quanto questo sia un dono da fare in primis a noi stessi.
Risponde un’anima, indicando la via e aggiungendo che se il masso non gli impedisse di alzare la schiena, lui avrebbe rivolto lo sguardo verso il vivo, per capire chi fosse. Non lo chiede, ma comincia subito a parlare di sé.
Ci troviamo alla presenza di Omberto Aldobrandeschi, secondo figlio di Guglielmo dei conti di Santafiora, famiglia nobile della Maremma senese, in quelli che oggi sono i territori della provincia di Grosseto, fin dal IX e X secolo. La loro potenza raggiunse l’apice con Ildebrandino VIII, morto nel 1208.
Mantenutisi ricchi, valenti guerrieri, avevano potere ed erano conosciuti proprio per la loro superbia e arroganza. Si credevano migliori degli altri, non considerando “la comune madre” (per alcuni commentatori la terra che vuole gli esseri umani tutti uguali tra loro, per altri Eva: madre del genere umano, per altri ancora la morte che ci rende tutti uguali a Dio. Io preferisco la terza); erano quindi molto noti, tant’è che persino i bambini conoscevano le loro gesta, imparate a memoria dai canti e racconti popolari del tempo.
Gli Aldobrandeschi, ghibellini e in continua lotta contro Siena, si divertivano a depredare viandanti, e recar danno con disprezzo chiunque non gli andasse giù, soprattutto se senesi.
La morte di Aldobrandeschi avviene nel 1259, anche se i motivi non sono ben noti. Le fonti più accreditate sono due: secondo il Benvenuto morì combattendo contro gli eterni rivali, i Senesi; mentre per Angelo Dei – cronista trecentesco senese – fu soffocato nel letto da sicari travestiti da frati, ovviamente senesi.
Omberto ammette quindi che la superbia appartiene a tutta la sua famiglia, che infatti è nel Purgatorio e che è giusto che lui paghi le conseguenze delle sue scelte in vita, portando sulla schiena quel masso per il tempo necessario a ripagare il suo debito con Dio.
Nonostante la superbia in vita, quindi, Omberto si dimostra umile, proseguendo nel suo giro attorno la cornice.
Prima di procedere vorrei soffermarmi sui versetti: “possiate muover l’ala,/che secondo il disio vostro vi lievi”, parafrasando: “possiate spiccare il volo/secondo il vostro desiderio”. Ecco, la Salvezza ci viene data sì da Dio, ma sempre se la vogliamo. Sta a noi capire se ne siamo davvero degni e quando si parla di perdono troppo spesso ci dimentichiamo quanto questo sia un dono da fare in primis a noi stessi.
Risponde un’anima, indicando la via e aggiungendo che se il masso non gli impedisse di alzare la schiena, lui avrebbe rivolto lo sguardo verso il vivo, per capire chi fosse. Non lo chiede, ma comincia subito a parlare di sé.
Ci troviamo alla presenza di Omberto Aldobrandeschi, secondo figlio di Guglielmo dei conti di Santafiora, famiglia nobile della Maremma senese, in quelli che oggi sono i territori della provincia di Grosseto, fin dal IX e X secolo. La loro potenza raggiunse l’apice con Ildebrandino VIII, morto nel 1208.
Mantenutisi ricchi, valenti guerrieri, avevano potere ed erano conosciuti proprio per la loro superbia e arroganza. Si credevano migliori degli altri, non considerando “la comune madre” (per alcuni commentatori la terra che vuole gli esseri umani tutti uguali tra loro, per altri Eva: madre del genere umano, per altri ancora la morte che ci rende tutti uguali a Dio. Io preferisco la terza); erano quindi molto noti, tant’è che persino i bambini conoscevano le loro gesta, imparate a memoria dai canti e racconti popolari del tempo.
Gli Aldobrandeschi, ghibellini e in continua lotta contro Siena, si divertivano a depredare viandanti, e recar danno con disprezzo chiunque non gli andasse giù, soprattutto se senesi.
La morte di Aldobrandeschi avviene nel 1259, anche se i motivi non sono ben noti. Le fonti più accreditate sono due: secondo il Benvenuto morì combattendo contro gli eterni rivali, i Senesi; mentre per Angelo Dei – cronista trecentesco senese – fu soffocato nel letto da sicari travestiti da frati, ovviamente senesi.
Omberto ammette quindi che la superbia appartiene a tutta la sua famiglia, che infatti è nel Purgatorio e che è giusto che lui paghi le conseguenze delle sue scelte in vita, portando sulla schiena quel masso per il tempo necessario a ripagare il suo debito con Dio.
Nonostante la superbia in vita, quindi, Omberto si dimostra umile, proseguendo nel suo giro attorno la cornice.
Ascoltando chinai in giù la faccia;
e un dir lor, non questi che parlava,
si torse sotto il peso che li ‘mpaccia,
e videmi e conobbemi e chiamava,
tenendo li occhi con fatica fisi
a me che tutto chin con loro andava.
«Oh!» diss’io lui, «non se’ tu Oderisi,
l’onor d’Agobbio e l’onor di quell’arte
ch’alluminar chiamata è in Parisi?».
«Frate», diss’elli, «più ridon le carte
che pennelleggia Franco Bolognese;
l’onore è tutto or suo, e mio in parte.
Ben non sare’ io stato sì cortese
mentre ch’io vissi, per lo gran disio
de l’eccellenza ove mio core intese.
Di tal superbia qui si paga il fio;
e ancor non sarei qui, se non fosse
che, possendo peccar, mi volsi a Dio.
Oh vana gloria de l’umane posse!
com’ poco verde in su la cima dura,
se non è giunta da l’etati grosse!
Credette Cimabue ne la pittura
tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,
sì che la fama di colui è scura.
Così ha tolto l’uno a l’altro Guido
la gloria de la lingua; e forse è nato
chi l’uno e l’altro caccerà del nido.
Non è il mondan romore altro ch’un fiato
di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi,
e muta nome perché muta lato.
Che voce avrai tu più, se vecchia scindi
da te la carne, che se fossi morto
anzi che tu lasciassi il ‘pappo’ e ‘l ‘dindi’,
pria che passin mill’anni? ch’è più corto
spazio a l’etterno, ch’un muover di ciglia
al cerchio che più tardi in cielo è torto.
e un dir lor, non questi che parlava,
si torse sotto il peso che li ‘mpaccia,
e videmi e conobbemi e chiamava,
tenendo li occhi con fatica fisi
a me che tutto chin con loro andava.
«Oh!» diss’io lui, «non se’ tu Oderisi,
l’onor d’Agobbio e l’onor di quell’arte
ch’alluminar chiamata è in Parisi?».
«Frate», diss’elli, «più ridon le carte
che pennelleggia Franco Bolognese;
l’onore è tutto or suo, e mio in parte.
Ben non sare’ io stato sì cortese
mentre ch’io vissi, per lo gran disio
de l’eccellenza ove mio core intese.
Di tal superbia qui si paga il fio;
e ancor non sarei qui, se non fosse
che, possendo peccar, mi volsi a Dio.
Oh vana gloria de l’umane posse!
com’ poco verde in su la cima dura,
se non è giunta da l’etati grosse!
Credette Cimabue ne la pittura
tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,
sì che la fama di colui è scura.
Così ha tolto l’uno a l’altro Guido
la gloria de la lingua; e forse è nato
chi l’uno e l’altro caccerà del nido.
Non è il mondan romore altro ch’un fiato
di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi,
e muta nome perché muta lato.
Che voce avrai tu più, se vecchia scindi
da te la carne, che se fossi morto
anzi che tu lasciassi il ‘pappo’ e ‘l ‘dindi’,
pria che passin mill’anni? ch’è più corto
spazio a l’etterno, ch’un muover di ciglia
al cerchio che più tardi in cielo è torto.
Mentre Omberto sta parlando, anche Dante si abbassa e nel farlo un’altra anima lo riconosce, chiamandolo. Prima di proseguire è doveroso capire perché Dante si abbassa.
Se seguite questa rubrica dal primo canto, sapete che ripeto ogni volta che ogni personaggio che incontriamo è una parte di noi, quindi anche di Dante stesso. Ebbene, il Poeta si riconosce totalmente nella superbia, tanto che qui lo vediamo prendere la stessa identica postura dei penitenti, perché consapevole di farne parte.
L’anima che lo ha chiamato è Oderisi da Gubbio (1240 circa – 1299 circa), grandissimo miniatore dei tempi di Dante, con una fama alle stelle.
Nel 1295 comincia a lavorare a Roma, nella libreria papale. Ancora oggi, nella Canonica di San Pietro a Roma, si possono ammirare due messali a lui attribuiti.
Dante quindi lo riconosce, dicendogli: “Tu non sei il grande artista?” e Oderisi gli spiega proprio che è in Purgatorio perché in vita era convinto che non esistesse nessuno più bravo di lui. Certo, pentendosi all’ultimo non è andato all’Inferno, ma questo non lo ferma dalla sua invettiva contro la superbia.
Ci dice, in parole povere, che ogni gloria, soprattutto in campo artistico, è vana, perché arriverà sempre qualcuno più bravo di qualcun altro. Nel momento in cui parla, per esempio, fa il nome di Franco Bolognese, nuovo maestro della sua stessa arte; ma non risparmia neanche Cimabue (1240 circa – 1302), che credendosi superiore a chiunque non ha fatto poi i conti con Giotto (1267 – 1337), e ancora: Guido Cavalcanti (1258 circa – 1300) che ha spodestato l’altro Guido, Guinizzelli (1235 – 1276), entrambi messi in ombra da (detto neanche tanto tra le righe) Dante, confermando quindi la sua superbia.
Il resto vorrei riportarlo parafrasato, perché non vi è da aggiungere molto alla grandissima saggezza dei versi che vanno dal 100 al 108: “La fama mondana non è altro che un fiato di vento che soffia da una parte e l’altra e cambia nome perché cambia direzione di provenienza. Quale maggiore voce avrai tu, se muori vecchio, rispetto a quella che avresti avuto se fossi morto da bambino, prima che passino mille anni? Più è corto un tempo, rispetto all’eternità, più sarà breve di un battito di ciglia, rispetto al movimento del cielo che si volge più lento”.
Insomma: qui ci mettiamo tutti in riga. Che senso ha compiacerci delle nostre abilità, delle nostre opere, persino dei nostri nomi se tanto arriverà sempre qualcuno pronto a superarci? E se anche fosse, quello che per noi sembra un’eternità – l’ottavo cielo, quello delle Stelle Fisse che compie la sua rivoluzione in 360 secoli – agli occhi di Dio è solo un battito di ciglia?
Questo senz’altro non significa rimanere fermi a non fare niente, non vuol dire vivere la vita in forma più anonima possibile, ma al contrario: vivere ogni giorno ricordandoci che facciamo il nostro massimo, che non deve avere a che fare con quello degli altri.
Se seguite questa rubrica dal primo canto, sapete che ripeto ogni volta che ogni personaggio che incontriamo è una parte di noi, quindi anche di Dante stesso. Ebbene, il Poeta si riconosce totalmente nella superbia, tanto che qui lo vediamo prendere la stessa identica postura dei penitenti, perché consapevole di farne parte.
L’anima che lo ha chiamato è Oderisi da Gubbio (1240 circa – 1299 circa), grandissimo miniatore dei tempi di Dante, con una fama alle stelle.
Nel 1295 comincia a lavorare a Roma, nella libreria papale. Ancora oggi, nella Canonica di San Pietro a Roma, si possono ammirare due messali a lui attribuiti.
Dante quindi lo riconosce, dicendogli: “Tu non sei il grande artista?” e Oderisi gli spiega proprio che è in Purgatorio perché in vita era convinto che non esistesse nessuno più bravo di lui. Certo, pentendosi all’ultimo non è andato all’Inferno, ma questo non lo ferma dalla sua invettiva contro la superbia.
Ci dice, in parole povere, che ogni gloria, soprattutto in campo artistico, è vana, perché arriverà sempre qualcuno più bravo di qualcun altro. Nel momento in cui parla, per esempio, fa il nome di Franco Bolognese, nuovo maestro della sua stessa arte; ma non risparmia neanche Cimabue (1240 circa – 1302), che credendosi superiore a chiunque non ha fatto poi i conti con Giotto (1267 – 1337), e ancora: Guido Cavalcanti (1258 circa – 1300) che ha spodestato l’altro Guido, Guinizzelli (1235 – 1276), entrambi messi in ombra da (detto neanche tanto tra le righe) Dante, confermando quindi la sua superbia.
Il resto vorrei riportarlo parafrasato, perché non vi è da aggiungere molto alla grandissima saggezza dei versi che vanno dal 100 al 108: “La fama mondana non è altro che un fiato di vento che soffia da una parte e l’altra e cambia nome perché cambia direzione di provenienza. Quale maggiore voce avrai tu, se muori vecchio, rispetto a quella che avresti avuto se fossi morto da bambino, prima che passino mille anni? Più è corto un tempo, rispetto all’eternità, più sarà breve di un battito di ciglia, rispetto al movimento del cielo che si volge più lento”.
Insomma: qui ci mettiamo tutti in riga. Che senso ha compiacerci delle nostre abilità, delle nostre opere, persino dei nostri nomi se tanto arriverà sempre qualcuno pronto a superarci? E se anche fosse, quello che per noi sembra un’eternità – l’ottavo cielo, quello delle Stelle Fisse che compie la sua rivoluzione in 360 secoli – agli occhi di Dio è solo un battito di ciglia?
Questo senz’altro non significa rimanere fermi a non fare niente, non vuol dire vivere la vita in forma più anonima possibile, ma al contrario: vivere ogni giorno ricordandoci che facciamo il nostro massimo, che non deve avere a che fare con quello degli altri.
Colui che del cammin sì poco piglia
dinanzi a me, Toscana sonò tutta;
e ora a pena in Sien sen pispiglia,
ond’era sire quando fu distrutta
la rabbia fiorentina, che superba
fu a quel tempo sì com’ora è putta.
La vostra nominanza è color d’erba,
che viene e va, e quei la discolora
per cui ella esce de la terra acerba».
E io a lui: «Tuo vero dir m’incora
bona umiltà, e gran tumor m’appiani;
ma chi è quei di cui tu parlavi ora?».
«Quelli è», rispuose, «Provenzani Salvani;
ed è qui perché fu presuntüoso
a recar Siena tutta a le sue mani.
Ito è così e va, sanza riposo,
poi che morì; cotal moneta rende
a sodisfar chi è di là troppo oso».
E io: «Se quello spirito ch’attende,
pria che si penta, l’orlo de la vita,
qua giù dimora e qua sù non ascende,
Se buona orazïon a lui non aita,
prima che passi tempo quanto visse,
come fu la venuta lui largita?».
«Quando vivea più glorïoso», disse,
«liberamente nel Campo di Siena,
ogne vergogna disposta, s’affisse;
e lì, per trar l’amico suo di pena,
ch’e’ sostena ne la prigion di Carlo,
si condusse a tremar per ogne vena.
Più non dirò, e scuro so che parlo;
ma poco tempo andrà, che ‘ tuoi vicini
faranno sì che tu potrai chiosarlo.
Quest’opera li tolse quei confini».
dinanzi a me, Toscana sonò tutta;
e ora a pena in Sien sen pispiglia,
ond’era sire quando fu distrutta
la rabbia fiorentina, che superba
fu a quel tempo sì com’ora è putta.
La vostra nominanza è color d’erba,
che viene e va, e quei la discolora
per cui ella esce de la terra acerba».
E io a lui: «Tuo vero dir m’incora
bona umiltà, e gran tumor m’appiani;
ma chi è quei di cui tu parlavi ora?».
«Quelli è», rispuose, «Provenzani Salvani;
ed è qui perché fu presuntüoso
a recar Siena tutta a le sue mani.
Ito è così e va, sanza riposo,
poi che morì; cotal moneta rende
a sodisfar chi è di là troppo oso».
E io: «Se quello spirito ch’attende,
pria che si penta, l’orlo de la vita,
qua giù dimora e qua sù non ascende,
Se buona orazïon a lui non aita,
prima che passi tempo quanto visse,
come fu la venuta lui largita?».
«Quando vivea più glorïoso», disse,
«liberamente nel Campo di Siena,
ogne vergogna disposta, s’affisse;
e lì, per trar l’amico suo di pena,
ch’e’ sostena ne la prigion di Carlo,
si condusse a tremar per ogne vena.
Più non dirò, e scuro so che parlo;
ma poco tempo andrà, che ‘ tuoi vicini
faranno sì che tu potrai chiosarlo.
Quest’opera li tolse quei confini».
Oderisi continua indicando l’anima che avanza davanti molto più lentamente rispetto a lui – quindi con un peso sulla schiena maggiore – è Provenzan Salvani: noto a tutti i toscani al suo tempo, ma che dalla morte ha visto ecclissare il suo nome persino a Siena, città di cui era Signore.
Paragona così la fama al colore verde dell’erba: lucente e brillante in primavera, ma destinato a ingiallirsi già dopo qualche settimana, per via del Sole.
Al sentire il nome di Salvani Dante chiede stupito come possa un personaggio del genere stare in Purgatorio, così per spiegarlo è giunto il momento di raccontare la sua storia…
Provenzan Salvani nacque a Siena nel 1220, figlio di Ildebrandino e nipote di Sabia. Di parte ghibellina, nel 1250 diventa ambasciatore a Volterra e l’anno successivo favorisce l’alleanza con i ghibellini esuli da Firenze.
Nel 1259 diventa ambasciatore a Manfredi, e guida le truppe senesi nella battaglia di Montaperti. Nel 1262 è nominato podestà di Montepulciano.
Tutta la sua carriera è un chiaro esempio di presunzione politica, perché per il cammino fatto gli era garantito il primato. Primato che venne interrotto nel 1269, quando venne catturato e decapitato durante la battaglia di Colle di Valdesa, tra senesi e fiorentini. La vittoria andò a Firenze.
Ma, come abbiamo visto in precedenza con le tre scene di umiltà, basta un solo gesto a rendere salva – almeno passando per il Purgatorio – la nostra anima. Nel caso di Provenzan è l’atto di umiltà nei confronti di un suo caro amico…
Nel 1268, a seguito della battaglia di Tagliacozzo, per riscattare il suo amico fatto prigioniero da Carlo d’Angiò, si mise seduto in piazza Campo a Siena, a chiedere l’elemosina e cercare di raggiungere la cifra richiesta per il suo riscatto: diecimila fiorini d’oro. Era intenzionato a non alzarsi più finché non avesse raggiunto la cifra esatta, e avendo chiesto aiuto con umiltà a ogni senese di passaggio, la raggiunse presto.
L’anima non prosegue oltre, ma lascia Dante – e forse anche noi – con l’amaro in bocca, profetizzando il suo esilio dicendo: “Non passerà molto tempo prima che anche i tuoi concittadini faranno lo stesso con te”.
Il prossimo mese vedremo come questa frase lasci un po’ scombussolato il Poeta…
Paragona così la fama al colore verde dell’erba: lucente e brillante in primavera, ma destinato a ingiallirsi già dopo qualche settimana, per via del Sole.
Al sentire il nome di Salvani Dante chiede stupito come possa un personaggio del genere stare in Purgatorio, così per spiegarlo è giunto il momento di raccontare la sua storia…
Provenzan Salvani nacque a Siena nel 1220, figlio di Ildebrandino e nipote di Sabia. Di parte ghibellina, nel 1250 diventa ambasciatore a Volterra e l’anno successivo favorisce l’alleanza con i ghibellini esuli da Firenze.
Nel 1259 diventa ambasciatore a Manfredi, e guida le truppe senesi nella battaglia di Montaperti. Nel 1262 è nominato podestà di Montepulciano.
Tutta la sua carriera è un chiaro esempio di presunzione politica, perché per il cammino fatto gli era garantito il primato. Primato che venne interrotto nel 1269, quando venne catturato e decapitato durante la battaglia di Colle di Valdesa, tra senesi e fiorentini. La vittoria andò a Firenze.
Ma, come abbiamo visto in precedenza con le tre scene di umiltà, basta un solo gesto a rendere salva – almeno passando per il Purgatorio – la nostra anima. Nel caso di Provenzan è l’atto di umiltà nei confronti di un suo caro amico…
Nel 1268, a seguito della battaglia di Tagliacozzo, per riscattare il suo amico fatto prigioniero da Carlo d’Angiò, si mise seduto in piazza Campo a Siena, a chiedere l’elemosina e cercare di raggiungere la cifra richiesta per il suo riscatto: diecimila fiorini d’oro. Era intenzionato a non alzarsi più finché non avesse raggiunto la cifra esatta, e avendo chiesto aiuto con umiltà a ogni senese di passaggio, la raggiunse presto.
L’anima non prosegue oltre, ma lascia Dante – e forse anche noi – con l’amaro in bocca, profetizzando il suo esilio dicendo: “Non passerà molto tempo prima che anche i tuoi concittadini faranno lo stesso con te”.
Il prossimo mese vedremo come questa frase lasci un po’ scombussolato il Poeta…
Nessun commento:
Posta un commento