Nella storia dell’Eneide, la fiducia nel prossimo non è che fosse una cosa così scontata, e lo sapeva bene Laocoonte. Nell’articolo di oggi parleremo dell’opera “Laocoonte e i suoi figli” (abbreviato poi in “Gruppo del Laocoonte”). Situata presso i Musei Vaticani, si tratta probabilmente di una copia di una versione del 150 a.C. di tre scultori: Agesandro, Atenodoro e Polidoro. Viene citata per la prima volta da Plinio il Vecchio, che la descrive presso l’abitazione dell’imperatore Tito (decimo imperatore romano).
Ma perché si parla di “copia”? Se ci rifacciamo sempre al trattato di Plinio, l’autore scrisse: “Nel Laocoonte, che è nel palazzo dell'imperatore Tito, opera che è da anteporre a tutte le cose dell'arte sia per la pittura sia per la scultura. Da un solo blocco per decisione di comune accordo i sommi artisti Agesandro, Polidoro e Atenodoro di Rodi fecero lui e i figli e i mirabili intrecci dei serpenti.” L’opera mostra come non si possa parlare di un solo blocco di marmo, ma di più pezzi composti insieme. Vediamo insieme la storia di Laocoonte e l’opera che potete trovare all’interno della Città del Vaticano.
Laocoonte è un personaggio della mitologia greca. Era un veggente abitane di Troia, gran sacerdote di Poseidone (e in alcune versioni di Apollo). Ulisse, che era il più ingegnoso dei greci, fece costruire un enorme cavallo di legno (il cavallo di Troia) che avrebbero dato in dono ai troiani per segnare la fine della guerra. Abbandonate le spiagge di fronte alle mura, i greci diedero l’impressione di aver posto la parola “fine” a una sanguinosa battaglia che andava avanti ormai da dieci anni. Un’offerta alla dea Atena che, secondo il falso Sinone, aveva smesso di favorirli perché Ulisse aveva profanato il suo tempio a Ilio. Era un segno di resa. All’interno dell’enorme animale, però, vennero inseriti dei soldati all’insaputa dei troiani. Laocoonte disse che di per sé già non si fidava dei greci, meno che mai quando questi offrivano dei doni. Sentendo che Cassandra affermava che all’interno del cavallo vi erano dei soldati, si unì a lei nel tentativo di convincimento e tirò una lancia contro il ventre dell’animale.
“Questa è macchina contro le nostre mura innalzata,
e spierà le case, e sulla città graverà:
un inganno v'è certo. Non vi fidate, Troiani.
Sia ciò che vuole, temo i Dànai, e più quand'offrono doni.”
Queste parole non piacquero alla dea Atena, che era dalla parte dei greci. Mandò così due suoi giganteschi serpenti marini, Porcete e Caribea, contro i figli di Laocoonte, Antifate e Timbreo, iniziando a stritolarli. Il padre, che in quel momento era intento a immolare un toro come sacrificio agli dei perché non permettessero la distruzione della città, non poté rimanere inerme davanti a quello scempio e provò a salvarli, finendo anche lui per morire nel tentativo. I troiani interpretarono la scena come un segno divino e portarono il cavallo all’interno della città e, nella notte, durante i festeggiamenti per la vittoria, dal cavallo uscirono i soldati che compirono un massacro che durò fino al giorno successivo.
Dopo avervi raccontato la storia di questo personaggio, parliamo dell’opera situata nei Musei Vaticani. Il ritrovamento avvenne sul Monte Oppio il 14 gennaio 1506, vicino alla Domus Aurea di Nerone. Allo scavo assistettero personaggi di alto calibro, come Michelangelo e Giuliano da Sangallo. Fu quest’ultimo, infatti, che identificò l’opera come quella descritta da Plinio il Vecchio. Al momento del ritrovamento, mancava il braccio del veggente. Michelangelo ipotizzò che il braccio dovesse essere piegato verso le spalle (confermato poi in un ritrovamento del 1906, ma nel corso dei secoli venne rappresentato il braccio teso verso il cielo).
La scultura venne subito acquistata da papa Giulio II e posta all’interno del Giardino del Belvedere progettato dal Bramante. Per molti, questo gesto è considerato l’atto di fondazione dei Musei Vaticani, perché attirò numerose visite da parte di curiosi e di artisti. Dopo un soggiorno a Parigi nel Museo del Louvre nel 1798, la statua tornò al Vaticano intorno al 1915 e a curarne il restauro fu Antonio Canova.
Nell’opera viene fissato sul marmo un momento drammatico come l’aggressione dei due serpenti su Laocoonte e i suoi due figli. Le pose dei corpi sono scomposte, perché cercano invano di liberarsi da quella mortale morsa, il che aggiunge drammaticità e dinamicità al marmo. Prevale il pathos, la sofferenza del veggente è bel delineata nel volto e nella postura, disperato, mentre cerca di liberarsi e assiste impotente alla morte dei suoi ragazzi. Alla destra di Laocoonte troviamo il più giovane dei suoi figli , un giovane praticamente, che in punto di morte rivolge un ultimo sguardo al cielo, mentre cerca con dita stanche di fermare la testa del serpente che gli si sta avventando nuovamente sul corpo ancora acerbo. A sinistra troviamo il figlio maggiore, ormai uomo, che prova a liberarsi dalla morsa delle bestie e assiste con orrore alla morte del fratello. Lo sguardo che rivolge al padre sembra una supplica, una richiesta d’aiuto a fare qualcosa. Ma Laocoonte non può fare nulla. Non può nulla contro il volere di Atena e uno dei serpenti gli si avventa sul fianco, mentre lotta invano, nel volto tutta la disperazione per la sua triste sorte.
Malgrado dovesse rappresentare un vecchio sacerdote, Laocoonte viene realizzato come un uomo adulto e dal fisico possente, come da copione nei canoni Ellenistici, che miravano alla perfezione idealizzata della figura umana. I muscoli in tensione ci fanno capire lo sforzo, ma anche la stanchezza. Il marmo crea un gioco di luci e ombre che ne esaltano ancora di più il movimento. E lo spettatore assiste impotente a quella scena che sembra svolgersi davanti ai suoi occhi, come se l’aggressione fosse reale.
E voi avete mai visto il “Gruppo del Laocoonte” dal vivo?
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